Il dio Ploutos, accecato da Zeus perché non possa distinguere i giusti dagli ingiusti, viene intercettato da un uomo e dal suo servo i quali decidono di provare a ridargli la vista in modo che le ricchezze possano essere distribuite a tutti. Ma nel momento in cui Ploutos riacquista la vista ecco apparire la Povertà che ammonisce il popolo: dal momento in cui tutti diventeranno ricchi ci sarà la fine del mondo perché nessuno vorrà più lavorare. Il testo, lungi dall’essere un tentativo di ricostruzione di un dialetto tradizionale, si propone di creare un codice barbarico postmoderno. Gli autori partono da Aristofane e lo affondano nelle periferie urbane capitoline degli anni Cinquanta, appena uscite dal dopoguerra e proiettate verso il Boom Economico. Il linguaggio diventa così alchimia atta a restituire l’alone atemporale e critico di questa favola morale. L’ironia greca si sposa perfettamente con la cinica e feroce sapienza drammaturgica di ricci/forte, contribuendo a realizzare un affresco di degenerazione politica, etica e culturale in cui viene esaltato il potere immaginifico della Parola. Questa riscrittura ha vinto il Premio della Critica come Miglior Testo Biennale Venezia 2009.